L‘8 Giugno è la Giornata Mondiale degli Oceani. Quest’anno, la ricorrenza dà il via al “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile“ voluto dalle Nazioni Unite: un progetto per mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e di innovazione tecnologica.
Proviamo a pensare al rumore delle onde, alle sfumature di blu e all’odore del mare: entrare in contatto con l’oceano ci ha sempre fatto stare bene, siamo fatti al 70% di acqua e osservare quella distesa ha un effetto benefico sul nostro umore e sulla nostra salute. Il mare ci fa bene… ma noi a lui?
Quando guardiamo da fuori queste sconfinate masse d’acqua, ci sembrano immutabili: l’acqua, principio primordiale che per Talete determina la vita, ci appare ancora oggi come un elemento inviolabile, che non può essere influenzato dall’attività umana, ma sarebbe d’accordo il Capitano Nemo che, a bordo del Nautilus, esplora le profondità marine?
Per decenni le nostre attività hanno avuto ripercussioni sulle acque, mettendone in pericolo la salute in modo diretto e indiretto. Oggi l’oceano è malato e ha bisogno di protezione.
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Uomo e oceani
Le masse d’acqua sono un alleato fondamentale per la lotta ai cambiamenti climatici. Negli ultimi 50 anni gli oceani hanno assorbito più del 90% del calore dovuto ai gas serra emessi dalle attività umane e senza di loro, oggi, la Terra avrebbe una temperatura di 36° in più.
Il calore non è però l’unica cosa che le acque hanno assorbito: a partire dalla rivoluzione industriale hanno immagazzinato circa 525 miliardi di tonnellate di CO2 portando conseguenze devastanti per l’ambiente marino. Quando la CO2 entra a contatto con l’acqua si trasforma in acido carbonico, che causa una drastica riduzione del Ph oceanico, dando vita al fenomeno dell’acidificazione degli oceani.
Tutta la biodiversità marina è in pericolo e i suoi comportamenti variano: l’alta concentrazione di CO2 in acqua causa un’impetuosa crescita della vegetazione, a discapito della fauna che necessita di grandi quantità di ossigeno e quindi tende ad allontanarsi.
Il problema è serio. Nel 2017 era stato stimato che gli oceani avessero un’acidità del 30% maggiore rispetto a quella del 1800, ma, secondo le aspettative, entro la fine del secolo potrebbero essere 10 volte più acidi rispetto al periodo di riferimento.
L’acidificazione dell’oceano viene considerata come un fenomeno invisibile per l’uomo. Lo stesso non si può dire dell’inquinamento da plastica, costantemente sotto i nostri occhi.
Ogni anno si stima che 8 milioni di tonnellate di plastica finiscano in acqua: nell’Oceano Pacifico, gli scarti vengono trasportati da un sistema di correnti nel “Pacific Trash Vortex“, dando vita a una grande concentrazione di micro-residui plastici. I rifiuti che circolano in questo vortice non si decompongono naturalmente, ma si smembrano fino a raggiungere dimensioni microscopiche.
Tutto ciò causa un progressivo inquinamento delle acque e l’inserimento di micro-particelle plastiche all’interno della catena alimentare: i plankton vengono contaminati dagli scarti e poi mangiati da organismi marini di cui l’essere umano si nutre. Â Al contempo, la plastica che non si deteriora intrappola, ferisce e uccide uccelli marini, pesci, mammiferi e rettili.
Secondo una ricerca del 2015, il 90% degli uccelli marini al mondo ha rifiuti di plastica nello stomaco, mentre sono 690 le specie minacciate dai rifiuti presenti nelle acque oceaniche.
Si stima che, entro il 2050, nei mari ci sarà più plastica che pesce.
L’uomo prende, prende e prende
L’oceano è una risorsa naturale fondamentale, in grado di fornire alimenti indispensabili per la nutrizione umana.
Per questo, l’uomo chiede dagli oceani più di ciò che essi possano offrire. La pesca incontrollata prevede prelievi enormi sulle popolazioni marine, non sempre in grado di rinnovarsi, come ci ricorda il concetto di Earth Overshoot. FAO e WWF hanno lanciato l’allarme: un terzo degli stock ittici è sovrasfruttato, mentre il 60% è sfruttato al massimo delle capacità .
Un’alternativa alla pesca industriale è l’acquacoltura, inizialmente proposta come soluzione sostenibile ma che ha, in realtà , un enorme impatto ambientale. Essa inquina le acque circostanti con materiali di scarto e causa la decimazione del pesce selvatico: i pesci allevati vengono nutriti con mangime composto da farina e olio di pesce proveniente dagli stock ittici selvatici. La produzione di farina e olio di pesce causa la perdita di migliaia di tonnellate idonee all’alimentazione umana: per produrre un kg di orata, ad esempio, sono necessari almeno 1,8 kg di pesce pescato.
Il problema è di dimensioni mondiali, ma si manifesta maggiormente nei Paesi meno ricchi. Nei Paesi dell’Africa Occidentale è sempre più importante la pesca industriale di piccoli pesci utilizzati per produrre mangimi.
L’importanza del pesce è indiscussa: rappresenta per oltre tre miliardi di persone il 20% dell’assunzione media pro capite di proteine animali. Da ciò deriva l’assoluta esigenza di individuare percorsi sostenibili di rifornimento, al fine di mantenere il pescato all’interno delle nostre diete senza esaurire le risorse marine.
Una nuova strada da percorrere
Gli oceani stanno soffrendo, ma un report realizzato dai ricercatori della King Abdullah University of Science and Technology dell’Arabia Saudita, pubblicato sulla rivista Nature, ha dichiarato la possibilità per i mari di recuperare la loro piena salute entro il 2050.
Secondo la ricerca, le conoscenze sugli habitat marini accumulate negli ultimi decenni ci permetterebbero di porre rimedio ai danni provocati dall’attività umana entro una generazione. “Abbiamo una stretta finestra di opportunità per offrire un oceano sano ai nostri nipoti e abbiamo le conoscenze e gli strumenti per farlo. Non riuscire ad accettare questa sfida… non è un’opzione“, dice Carlos Duarte, che ha partecipato al report.
La strada da fare è sicuramente ancora lunga, ma sembrerebbe che almeno, ci stiamo muovendo nella direzione corretta.
Fonti: GreenPeace
Rinnovabili.it
Nature